MUSICA 2006
di Lorenzo Casaccia
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Il Labirinto 
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Best 
2006
8/10
Joanna 
Newsom "Ys"
7.5/10
Carla Bozulich 
"Evangelista"
TV On The Radio "Return To Cookie Mountain"
7/10
    Cecilia Chailly 
"Alone"
Trends
Folk psichedelico, rock ispirato alla musica 
balcanica, rock ispirato alla new wave, popolarita' e maturazione del 
dubstep    
   
     
Giovanni Allevi - Joy
 Allevi ha fatto una gavetta pazzesca da anni, durante la 
 quale ha imparato a memoria la lezione dei maestri new 
age della Wyndham Hill, ma ha pure ascoltato il rock, il jazz, e molta radio. E' 
irresistibile la melodia di "Panic", un ritornello accattivamente che ti 
accarezza e non ti lascia, intrecciandosi in un gioco di 
strofa/ritornello/strofa/ritornello/bridge che fa tanto pezzo rock. 
          
               
          
          
      Il resto del 
disco piu' o meno segue lo stesso stilema una dozzina di volte. 
              
                
               
           
                 
   6/10 
Beirut - Gulag Orkestrar
 Un 19enne nel New Mexico che si chiude in camera e realizza 
un disco di musiche balcaniche, arrangiato, suonato, pensato, vissuto come se 
fossimo da qualche parte nell'Est Europa, tra fisarmoniche, voci ubriache e 
sognanti, mandolini e marcette popolari. 
Al di la' del risultato musicale, 
uno dei massimi esempi della globalizzazione moderna, nel vero senso della 
parola. Thomas Friedman apprezzarebbe 
      
               
             
             
             
           6.5/10 
  
Carla Bozulich - Evangelista
 Una vita da maledetta, un passato nei Geraldine Fibbers, 
una immagine di se' da disastro umano. 
          
       Tutto questo e' 
Carla          
       Bozulich, che se ne e' esce con un 
disco che stride e sanguina, piange e guaisce, forse il massimo compimento per la cricca 
della Constellation che era uscita alla ribalta ad inizio millennio con una 
pletora di uscite sinfonico-liriche-elegiache (Godspeed You Black Emperor! e 
Silver Mt Zion, la cui eco qui e' ben presente).
 La Bozulich impara 
dall'immensa Lisa Germano (quando non dall'avanguardista Diamanda Galas) e 
affonda se stessa e i suoi brani dilatati di chitarre e rumori. 
Il primo pezzo, "Evangelista I", e' come far girare 
Polly Jane Harvey a meta' velocita', ma con il doppio dell'adrenalina, finche' dopo 
sette minuti e mezzo esplode in un climax da far letteralmente accapponare la pelle. 
"How To Survive..." celebra lo stesso rituale concludendolo pero' con le lacrime di 
una coda che taglia com fucilate di feedback un lamento disperato. 
"Pissing" parte come una ballata, per tramutarsi in un rito 
pagano, dove un baccano infernale segna il trionfo del dionisiaco 
Non tutto e' riuscito perfettamente, qualche brano sembra stranamente approssimato. Ma qui ci sono un paio di 
pezzi che valgono il disco intero. 
              
                 
               
             
            
               
                 
                
   7.5/10 
Burial - HDBCD001
  Il dubstep e' nato intorno al 2000 in quel calderone 
di musica elettronica che e' Londra, sostanzialmente come 
una variante dub-bizzata del "two-step" (a sua volta un genere 
dello UK Garage, da non confondersi con il garage di New York coevo 
di techno e house). Il dubstep sostanzialmente e' musica elettronica rallentata, caratterizzata 
da bassi da subwoofer, sincopi e salti ritmici 
ereditati dalla jungle, assenza del classico battito cardiaco della 
musica da ballo (cioe' non c'e' il "four-to-the-floor" ne' ovviamente il "jack" 
della musica house) e spesso sovrapposizione di due pattern ritmici l'uno a 
velocita' doppia dell'altro
Il genere e' sostanzialmente "esploso" dopo il 
2004. Questo disco di Burial e' stato numero uno del 2006 per The Wire, 
ufficializzando definitivamente il genere.
Per ora: 
  6.5/10 
Cecilia Chailly - Alone
 In Italia abbiamo una musa, ma sappiamo di averla? E se 
si', sappiamo meritarcela? 
Cecilia Chailly ha un 
apparato emozionale non comune, e vive la propria vita come un'opera d'arte. Una gioventu' da predestinata della 
classica, l'abbiamo immaginata dietro alla Manuela Duini di Andrea De Carlo, l'abbiamo 
vista con il cuore a nudo nel suo romanzo "Era Dell'Amore", l'abbiamo conosciuta con i 
mandala e le fotografie sul suo sito. Ora la Chailly mescola tutta 
la sua vita interiore con l'altra vita, quella fatta di esperienze musicali eccezionali all'arpa, 
andando ad infilarsi tra i vicoli della panetnica elettronica. La 
voce fa capolino qui e la' tra i vari bozzetti, che splendono con la luce - si 
sarebbe detto un tempo - di chi e' caro agli dei.  
  
  Non molte osano cosi' tanto con se stesse per creare qualcosa. Carla Bruni e 
Cat Power vengano a lezione da queste parti. 
               
               
              
              
                
               
             
                
                 
                
     7/10 
Josephine Foster - A Wolf In Sheep's Clothing
 Come celebrazione di cosa possa essere la globalizzazione oggi (o piu' 
prosaicamente di cosa possa essere la canzone d'autore) arriva un disco 
di lied ottocenteschi in tedesco cantati da una voce di Chicago ed arrangiati 
in un folk quasi spettrale. Meno eterea della Joanna Newsom cui e' stata 
(erroneamente) accostata, sicuramente meno fricchettona di molto altro nuovo folk (da 
Devendra agli Animal Collective), la Foster scioglie il canto in arrangiamenti 
sparsi, trascina la musica da camera di due secoli fa dentro alla sua cameretta, 
e sostituisce il quartetto d'archi con il quattro piste. 
Sono pochi gli 
strumenti, tanto da evocare a tratti persino i memorabili For Carnation. E' dark 
l'umore, come se il miglior folk femminile degli anni Novanta si mettesse tra le 
mani di Steve Albini (e certo con Steve questa musica guadagnerebbe passi verso 
il cielo, o l'inferno, a scelta). 
Il tutto fino agli 11 minuti di "Auf Einer 
Burg" dove Schumann si dissolve in un letto di vagiti psichedelici di voce e 
chitarra: un brano che alza la media del disco. 
             
               
                 
             
              
               
              
               
               
                 
               
               
                 
  6.5/10
Grizzly Bear - Yellow House 
 Grizzly Bear e' tal Edward Droste, che tra New York e 
Boston ha messo a punto un altro episodio del folk revival di questi anni. Erede 
sicuramente dell'onda degli Animal Collective queste sono canzoni gentili, prodotte con un suono pieno, corposo, e molto sixties. Nulla di 
che: la voce gira piacevolmente riverberata, gli arrangiamenti si accavallano in un wall of sound 
psichedelico, ed ogni tanto si abbandano (come nella chiusura 
del disco) ad un accenno di raga ipnotico. Le 
foto del libretto - quella che sembra una casa abbandonata - danno un tocco 
evocativo a quello che e' un gioco soprattutto per appassionati del 
genere  
  6/10 
A Hack And A Hacksaw - The Way The Wind Blows
 Un po' un parente povero di Beirut, corollario al boom 
di musica balcanica del 2006-2007. Non molto piu' che un epigono di quel 
mini-genere. 
              
             6/10 
Quentin Harris - No Politics
 Un bella house che ti schiaffeggia,non caciarona come 
  Van Helden ma che si gode un battito di jack di quelli che travolgono 
 
  6/10 
The Knife - Silent Shout
 Uno spirito apocalittico e claustrofobico - e sarebbe 
fin banale dirlo bergmaniano - anima le tracce degli svedesi The Knife. Terzo 
disco del duo di fratello e sorella, "Silent Shout" riscopre un repertorio 
decisamente vasto che passa per i Public Image di "Albatross", i Radiohead di 
"Kid A", il boom del genere IDM del 2001, il dark-pop inglese degli anni '80 e 
il rock straniante e cattivo di Xiu Xiu e (nelle intenzioni) Wolf Eyes. 
Non importano tanto gli strumenti espressivi quando 
l'enunciazione di un minimo comun denominatore tra tutti i referenti 
citati sopra. Che e' quello di una paura atavica, trasfigurata in un 
elettro-pop oscuro e a tratti quasi danzante, ma sempre spettrale e feroce. 
             
                 
           
             
                
                 
            
               
             6/10 
Mira Calix - Eyes Set Against The Sun
 Mira Calix fa di quei dischi che metti su e sono sempre 
in quella strana linea di confine tra musica d'ambiente che non ascolti, e 
sperimentazione elettronica che ti fa sollevare le antenne (o irrita 
l'occasionale ospite). C'e' chi ama interpretarla un po' come l'evoluzione in 
canzone del trend dei "micro-suoni" che ha permeato gli ultimi 5-10 anni, ma 
nonostante un suono delicatissimo manca lo spessore, il colpo da ko. 
                 
             
               
             
               
        5.5/10 
Joanna Newsom - Ys
 La Joni Mitchell del 2006 si chiama Joanna Newsom, viene da 
Nevada City, California, ha 25 anni, canta e suona l'arpa, e ha fatto un disco che esce da un altro pianeta, corredato da 
un titolo impossibile e da una copertina piu' appropriata ad una mostra di cultura basso-medievale 
che a un disco su una etichetta indipendente. 
Sono canzoni 
elaborate, infinite, lunghe e creative, come quelle del Van Morrison 
di "Astral Weeks" (e come quelle che da sempre avremmo voluto sentire 
da Bjork e che lei non e' mai riuscita a fare). 
La 
voce e' petula, quasi infantile, ma la Newsom ha quello che molte colleghe 
piu' dotate non hanno, il coraggio di usarla. Ogni sillaba e' un cesello, 
ogni respiro un'avventura, ogni frase un cammino che passa dal sussurro all'urlo, 
dal gemito al falsetto. Onore a chi riesce e far suonare epico persino il bignami di 
astrofisica di "Emily", e a chi regge l'urto del microfono per passaggi 
equilibristici di voce sola. 
Le melodie sono 
rigogliose, nascondono la classica struttura pedante del 
rock di strofa e ritornello in un disegno astratto che esalta il lirismo 
libero dei brani, i quali sono difatti molto piu' "composizioni" che 
"canzoni".
Un incredibile trio 
di collaboratori ha lavorato a "Ys" (e non so se l'abbiano 
fatto piu' o meno gratis dopo aver sentito il materiale, o cosa sia 
avvenuto). 
Il mitico Van 
Dyke Parks, l'uomo 
che quarant'anni fa pennellava gli arrangiamenti di archi dei Beach Boys 
di "Pet Sounds", ha contrappuntato la Newsom di un tappeto orchestrale discreto 
e coloratissimo. Steve Albini, quello che produceva le rock star per compensi a cinque cifre per 
potersi poi permettere di lavorar gratis per Slint e Jesus 
Lizard, ha registrato voce ed arpa, regalando loro come suo 
solito un suono croccante e definito. Jim O'Rourke ha mixato il 
tutto.
Sono solo cinque i brani, e durano da sette a diciassette 
minuti l'uno. Cambiano d'umore da un minuto all'altro. Raccontano 
 storie in un inglese forbito. Ora accelerano, ora rallentano, ora divertono, ora 
commuovono. "Cosmia" centra le melodie forse piu' accattivanti, ma il brano 
la Newsom l'ha nascosto in fondo al disco. "Monkey & 
Bear" parte che sembra uno scherzo, a meta' e' diventato un florilegio di 
scale dolorose, quando finisce e' una colonna sonora drammatica.  Il brano piu' lungo, "Only Skin", riassume 
tutto l'arsenale espressivo del disco (ed e' l'unico pezzo del 2006 
che dovete sentire se proprio vi costringono 
a sceglierne uno); dopo tredici minuti e mezzo di viaggio riesce ancora ad 
azzeccare una cadenza epica che spalanca il cielo, raddoppiata dalla voce di 
Bill Callahan (meglio noto come Smog, nonche' apparentemente il ragazzo di 
lei). Gli altri due pezzi li sentite da soli.
Ha scritto saggiamente Brian Howe su 
Pitchfork  "I understood that indie music has longed for someone like 
Joanna Newsom, who brings the poise and splendor of classical music, divested of 
refrain-from-crinkling-your-toffee-wrappers snobbery, to an audience that by now 
might have had to mope through a couple too many mediocre performances in their 
ongoing search for the authentic". Una 
citazione che coglie bene la non-appartenenza di questo disco, in tale senso del 
tutto avulso dal paradigma del rock indipendente americano (che da sempre 
e' in larga parte musica "sociale", fatta da una sottocultura per una 
sottocultura, sempre alla ricerca dello street cred, dell' "I play 
it and I mean it       
          
           
         ")
Infatti non e' chiarissimo 
cosa sia questo disco. L'etichetta su cui esce e' Drag City, ma come 
hanno commentato in diversi forse non e' rock (pero' d'altronde  anche 
"Sister Ray" nel 1968 non pareva rock). 
       
          
            
  Dettagli. Comunque sia, troppo superiore per la concorrenza. 
               
                
              
              
               
            
             
                 
       8/10 
Ursula Rucker - Ma'at Mama
 Hip-hop europeo, storie di strada per gioventu' urbana 
intellettuale. Non ha senso ascoltare la Rucker se non si capiscono i testi alla 
perfezione (l'ascoltatore ideale sa cosa e' stato il Wu-Tang Clan ed ha una comprensione almeno superficiale della sottocultura nera 
americana) 
          5.5/10 
Sao Paulo Underground - Sauna: Um, Dois, Treis
 Quella di Sao Paulo Underground e' una storia interessante, per 
certi versi propria dello sprito dei tempi (qualsiasi cosa cio' voglia 
dire, ma e' una espressione che mi si fa notare uso assai...). Dietro al 
moniker si cela Rob Mazurek, uno degli agitatori della scena di Chicago d'intorno 
al 2000 (quella, in senso molto esteso, che girava intorno ai Tortoise e 
riprendeva rock tedesco dei '70, jazz e pasta rock). Mazurek si e' trasferito a 
Manaus, in Brasile (non ho scoperto il perche') e si e' messo in duo con 
Mauricio Takara, un suo emulo locale, e co-proprietario della ragione sociale Sao 
Paulo Underground.Takara si occupa della ritmica e Mazurek dei fiati; entrambi si 
occupano dell'elettronica. 
Ne e' uscito un disco pastoso, di quel jazz 
"sperimentale quanto basta", dove le occasionale linee melodiche di tromba o 
tastiera emergono da un coagulo di suoni prettamente informale (nel senso di 
"a-formale"). Il referente di musica come questa torna sempre al Davis di 
"Bitches Brew" - sara' una banalita' ma e' cosi' - e l'impressione generale e' 
quella dell'incompiutezza: potevano passare altri sei mesi in studio e 
sicuramente ne usciva fuori qualcosa di piu' attento al dettaglio. Ma tant'e', 
oggi non si usa piu' cosi.
Come per una altro jazzista, di New York ma sulla 
stessa lunghezza d'onda creativo-emotiva, Matthew Shipp, questa e' musica che 
puo' andare avanti ore ed ore, ti avvolge, ti seduce, ma poi scivola via come 
lasciandoti quel sapore di delusione sulle labbra.
  5.5/10 
Sonic Youth - Rather Ripped
 Ho in casa una pila di dischi dei Sonic Youth, a partire da quelli pubblicati quando appena 
cominciavo a camminare e comprato poi dopo, a quelli che 
hanno convertito il mio orecchio di teenager, a quelli che ne hanno poi 
coltivato la passione, e cosi' via; potrei farci una autobiografica con i 
dischi di Sonic Youth. Ma "Rather Ripped" fa lo stesso effetto 
che faceva "The Division Bell" dei Pink Floyd: si', c'era quella chitarra 
satura di Gilmour, si' c'erano i tempi medi, si' c'era quel bel suono spazioso - 
ma il disco era farsesco. 
I Sonic Youth sono ormai troppo grandi, troppo importanti 
anche per se stessi: quei riff, quelle voci, quei cambi di tempo hanno il crisma 
della classicita' e suonano proprio come dovrebbero suonare        
             
           i 
Sonic Youth; ascoltare questo disco non e' altro che perpetuare un rito, 
trasformare la passione e la curiosita' musicali in una mera cerimonia. Uno 
scenario che sarebbe forse accettabile, che so, per un cantautore - ma non per 
chi ha fatto dell'esplorazione sonora la propria ragion d'essere, con una 
discografia leggendaria che sulle spalle di questo disco pesa come un 
macigno.
A scrivere stipendiati da qualcuno, questo sarebbe il classico 
disco impossibile da recensire: come stroncare i Sonic Youth? Per fortuna che 
oggi nessuno mi paga....
Platini ha capito quando era ora di smettere di 
giocare. Lo possono capire pure loro. 
  5/10 
Tussle - Telescope Mind
 Non sono molto sicuro del perche' abbia comprato questo disco, qualcuno 
deve avermelo consigliato. I Tussle sono un quartetto di San 
Francisco che fa musica solo ritmica e strumentale. Qualche bel poliritmo, qualche bel 
passaggio, qualche bel tiro, ma - oh boy - un pezzo di vent'anni fa come 
"I Zimbra" dei Talking Heads se li fa a pezzettini.
          
         
             
               
         Questo disco ha in 
realta' un suo senso solo all'interno di una sottocultura partita da gruppi come 
gli Out Hud a inizio millennio, e maturata con gli LCD Soundsystem un paio 
d'anni dopo, dove gli indie rock kids hanno scoperto il 
groove, un bel basso seventies, James Brown e tutto il resto - e ci vengono 
a spacciare i Tussle come qualcosa di cool. 
Vergogna - tutti a casa, a 
studiare la storia del rock.  
        
              
    4.5/10 
TV On The Radio - Return To Cookie Mountain
 Dedicato a chi non trova nulla di eccitante nel rock. 
Wall of sound, voci raddoppiate, chitarre sferzate in un contesto che sembra 
memore dei cLOUDDEAD. Ma questo non e' hip hop (anche se a volte ne ha le 
cadenze) e' un rock in tempo medo che potrebbe ricordare nelle intenzioni i 
Talking Heads. E non i Talking Heads copiati a vent'anni di distanza, ma "la 
musica che suonerebbero i Talking Heads se uscissero oggi". 
Le recensioni sollevano un pletora di paragoni tra i piu' 
strampalati, da Eno al punk passando per il doo-wop. 
  
              
   Forse se riuscite a pensare a qualcosa come i My Bloody 
Valentine piu' i Beach Boys pubblicati dalla Anticon, ci andate vicino 
               
             
                     
               
              
             
                
                 
        7.5/10 
Scott Walker - The Drift
 Scott Walker faceva pop a meta' anni '60, in stile Phil 
Spector eccetera. Oggi e' un signore ultra-sessantenne e ci si aspetterebbe viva 
di rendita o abbia una boutique o al piu' di atteggi come Adriano Celentano. 
Invece, fa uscire un disco ogni 5-10 anni, e parliamo di dischi oscuri, 
quasi ostici, "sperimentali" direbbe qualcuno, sebbene non ci sono qui molti 
suoni che non si siano gia' sentiti. Walker sostanzialmente va a cercare una 
forma estetica per dei lied free-form attraverso qualsiasi strumentazione 
tecnica la modernita' gli offra. 
Ne escono brani di svariati minuti, spesso 
senza ritmo, sempre incastrati intorno al canto/invocazione/gemito di Walker (un 
timbro eccentrico che puo' alla lunga risultare particolarmente bizzarro), e 
arrangiati con qualsiasi cosa vada da da archi, elettronica, suoni trovati, 
chitarre. 
La musica e' un qualcosa che e' debitore all'industriale inglese 
degli anni '80: cupa, opprimente, oscura. Diversa critica istituzionale per 
questo disco e' impazzita; io un po' meno 
              
               
                
               
                
              
           
              
             
            
              
            
              
  6/10 
Welcome - Sirs
 E' tornato l'indie pop, e con lui la memoria degli anni 
in cui per le (mie) strade nebbiose di provincia si parlava di Guided By Voices, 
Pavement, e poi Braid, Joan Of Arc, Lou Barlow. Gli anni delle cassette, e gli 
anni in cui si sognava di essere a Athens, Minneapolis o Stockton. 
Oh my 
god, sto diventando nostalgico. Ma non gli basta. 
5.5/10
© Lorenzo 
Casaccia